Alberto Favretto

[15:00, 15/11/2021] Alberto Favretto:

Pieno. Vuoto. Pieno. Vuoto. Di nuovo pieno. Di nuovo vuoto. Pieno.
Sono passati nove giorni dall’ultima implosione, novantuno dalla prima
Da quella prima volta che udimmo il suono prodotto da un pezzetto di fil di ferro trovato in cucina che penetrava la gomma di quel palloncino, ho iniziato a conoscere le frequenze armoniche di ognunə di noi.
La nostra prima esperienza condivisa fu nel fragore dello scoppio che rimbalzava contro le pareti bianche della sala turbine di Centrale Fies, onda che ha colpito nello stesso preciso istante i nostri corpi, facendoli vibrare, reagire e sprigionare a loro volta un suono.
Ognuno rivelatore, criptato, presente, omnidirezionale.
Chi un sibilo, chi una vocale aspirata, chi una risata liberatoria, chi un commento, chi nulla se non dopo qualche attimo. Chi, preoccupato per la registrazione audio, rimpiangeva la perdita della coda del boato, l’eco che si dissolve fino al silenzio, al vuoto.
Il vuoto si è subito riempito.
Da lì in poi ogni vuoto sarebbe stato riempito da pensieri, immagini, compiti, giochi, silenzi impossibili, dubbi, attese, ricerche, parole, prove ed errori. Una quantità di materiale fertile che genera movimento. Ogni tipo di movimento.
La netta sensazione che un lungo e sempre più complesso micelio stava percorrendo metri, chilometri per ore e attimi sotto i nostri piedi ha portato alla percezione della presenza dell’altrə e alla propriocezione dell’organo all’interno di un organismo. E’ stata una sorta di allucinazione lucida, di alterazione del solito, del consueto e del solitario.
La concentrazione, il metodo, la sensibilità, l’amore e l’apertura stavano iniziando a tessere una rete invisibile permeata di cure e attenzioni, sensibile agli adattamenti, spostamenti e trasformazioni per inglobare ogni elemento esterno portatore di novità e di variabili e trasformarlo a sua volta in un ulteriore generatore di linfa.
Dopo 91 giorni da quel momento, dopo 9 dall’ultimo, l’eco si è stratificata con tutti i suoni udibili e non udibili generati durante il processo, mantenendo intensità, colori e temperature, componendo immagini nuove che si sovrappongono a quelle della mia quotidianità, del mio passato e alle proiezioni del futuro.
Come in un sistema radicale le nuove connessioni rimangono sommerse in questo humus per assorbirne i nutrienti e rilasciare nuova sostanza metabolizzata ma ancora sconosciuta.
Per quanto mi riguarda è stata un’esperienza epifanica scoprendo che il mio organismo può essere molto diverso da come lo percepivo, da come lo volevo percepire e da come credevo venisse percepito.
Per 91 giorni ho assistito, facendone parte, alla creazione di un ecosistema che ha diretto le proprie energie lungo un percorso sotterraneo e che, ad un certo punto, si è reso visibile come un apparato vegetativo spettacolare.
Uno dei preziosi regali che ho ricevuto la mattina della partenza da Roma, lunedì scorso, è un piccolo ecosistema custodito da un contenitore in vetro, abitato da un muschio, una muffa e una piccola pianta di fittonia albivenis. Rari e misurati interventi da parte mia saranno sufficienti a fornire un po’ di umidità, per il resto lì dentro si sono perfettamente organizzatə per autosostenersi e vivere bene.
La fittonia per l’essere umano è una pianta curativa e psicoattiva.
E’ probabile che non conosca nemmeno gli effetti che può sortire su altri organismi.
E’ probabile che non conosca tutte le sue potenzialità per l’ecosistema.
Di sicuro le pratica senza indugio. Ci sta.